a cura di Enrico Emanuelli
Mi metto davanti ai quadri di Italo Valenti non come critico, ma come commentatore. Guardando i suoi quadri e poi ripensandoli m’ accorgo che nel ricordo sono rimasti, con prepotenza, alcuni colori un certo rosso, un determinato giallo e quegli azzurri ora intensi ora delicati. Soltanto in un secondo tempo la memoria si rivolge ai soggetti: fiori, una giostra, gli aquiloni, i carrettini della nettezza urbana, un traghettatore sopra un’acqua misteriosa. « Simile prova del ‘ricordo’ permette (magari in modo empirico, che darà fastidio ai critici) di capire come Valenti abbia saputo separare i veri problemi della pittura da quelli falsi. E tornato quindi ad un linguaggio pittorico tanto semplice e vero da sembrare, ai giorni nostri, insolito. Forse per questo egli non trova una facile etichetta, che gli vada bene e che metta in pace l’animo di chi desidera arrivare presto ad una conclusione. Non è picassiano, non è astratto, non e spaziale o nucleare. Il cubismo c’è stato anche per lui, ma non è cubista. Anche se un certo gusto nel l’avvicinare due colori ricorda Matisse e se una certa sua fantasia suggerisce (ma sottovoce) il nome di Chagall, si capisce che si resta a riferimenti vaghi e, persino, occasionali.
Cercate di mettere questa pittura di Valenti tra quella moderna: ci sta bene, ma ci sta in un modo suo che nello stesso tempo appare educato e orgoglioso e solitario… Grosso modo, tra il 1950 ed il 1953, si può parlare di lui come di un pittore suggestionato dal realismo magico. Si trattava d’un magico temperato. In altre parole era forse soltanto un sentimento poetico, che ha un riferimento letterario preciso: quello che Alain-Fourier ha rievocato con Le Grand Meaulnes. Era quello un periodo in cui sembrava che fosse sospettoso non degli altri, ma di se stesso. Sentiva che gli era necessario raggiungere con libertà un equilibrio ed una autonomia senza umiliare la sua vena coloristica o tradire il suo mondo sentimentale. « Non bisogna avere paura nel parlare di ‘vena coloristica’ e di ‘ mondo sentimentale . D’altronde il gergo strettamente critico – a differenza di tutti gli altri gerghi – permette molte confusioni: per esempio, invece di dissoluzione formale sarebbe più giusto dire mancanza di volontà organizzativa; ed invece di edonismo coloristico sarebbe più giusto dire incapacità di creare rapporti nuovi tra colore e colore. Questo e dunque un esempio di quei veri e falsi problemi a cui accennavo all’inizio e già implicitamente mostra come Valenti li abbia capiti e risolti dandoci i risultati della sua volontà organizzativa nel comporre un quadro e dei suoi rapporti coloristici nel dipingerlo. Le controprove sono, adesso, davanti a noi.
Non tradisce se stesso, nè la sua vena coloristica, nè il suo mondo sentimentale anche se dipinge i tetti di Coira o un mazzo di fiori: dove prima il « magico » poteva sembrare una risorsa dell’intelligenza, adesso il « poetico » diventa una conquista dell’animo… La sua fantasia non è cambiata, ma soltanto ha cercato riferimenti più umani e meno intellettualistici. E la sua piccola vittoria, e il segno del suo salvataggio di fronte ai pericoli che trovava lungo la strada d’un tempo… Passato il tempo giovanile in cui ad ogni costo si voleva mostrare la nostra ‘ intelligenza ‘ è venuto quello in cui basta mostrare la nostra capacità di chiarezza’. Cadute le vanità delle ‘ interpretazioni ‘ rimangono quelle, molto più durature e giustificate, della ‘ rappresentazione
Emanuelli, Enrico, Italo Valenti, Domus n°321, Agosto 1956