a cura di Guido Piovene
Tra le molte ragioni per cui la pittura di Italo Valenti mi è piaciuta fin dall’ inizio, – quand’egli apparteneva al gruppo di Corrente, – una è personale. Nel suo ingegno riconoscevo alcune caratteristiche che mi erano famigliari.
Quale fosse a quel tempo la sua tendenza tutti lo ricordiamo. Col gruppo di Corrente egli si era associato a una reazione contro la forma (almeno contro la forma come fu concepita da quelli che oggi sono i maestri viventi della nostra arte pit-torica) che certo fu la prova più interessante della pittura di questi ultimi anni. Era un radicale ripudio dell’arte realizzata e oggettiva, del bello formato e esteriore; un ripudio dell’arte compiuto per mezzo dell’arte. Un così disperato anti-estetismo, un così tenace negarsi all’orgogliosa definizione nel segno, da rifiutare di compiere un vero quadro, da cercare nell’arte più umiliazione che vittoria. Scompare tra questi pittori il classico orgoglio dell’artefice: se vi è orgoglio, è soltanto quello di accettare senza riserve la dissoluzione formale. La pittura per essi è soltanto un fluido mezzo di comunicare involuti stati della coscienza. Una pittura volontariamente irrealizzata nel senso classico, pregna di elementi suggestivi: un’ esperienza cristiana nei più sin-ceri, pseudo-cristiana in quelli che la seguono senza convinzione profonda. Le sue origini (e anche questo è ammesso e voluto) sono certo morali più che pittoriche: più che in altre scuole pittoriche possono trovarsi in una pagina di Mal-larmé. Dai primi quadri di Valenti si capì subito che a questa moralità non apparteneva che a mezzo.
Per attenervisi del tutto, gli mancava il proposito della nudità assoluta, della rinuncia piena: gli mancava quel gusto di spogliarsi senza residui di ogni grammatica umana. Le perdizioni che egli amava, erano quasi perdizioni. Ecco perché le prime prove che vidi allora di lui mi parvero famigliari. Anche in lui c’era il gusto dei pericolosi equilibri, di sporgersi il più possibile verso un’esperienza esterna, ma di ritrarsi prima di cadervi del tutto. Egli amava vivere in margine alla disperazione, ma non l’accettava mai e rimaneva sempre padrone di sé. Ai tempi di Corrente la sua fu perciò un’arte ambigua. Nella dissoluzione, per così dire, programmatica, si insinuavano elementi sentimentali e narrativi, un colorismo che tendeva al piacevole. Nei modi stilistici del gruppo, penetrava anche, e con effetto curioso, l’aneddotismo del veneto. I suoi quadri tendevano ad appoggiarsi sul « soggetto »: coppie di amanti lunari che camminavano o si libravano a volo; cani sperduti in una piana; bambine dai capelli rossi; pazzi in un’isola deserta. Proprio da questa ambiguità è sorto più tardi . in Valenti un desiderio di riforma; o, se questa parola sembra troppo solenne, un desiderio di assumere caratteristiche nette e personali. Egli si avvide quanto pericoloso fosse per lui il continuare una pittura anti-pittura; una pittura cioè che, rifiutando la forma, si brucia tutta nel suo farsi, atto vitale più che opera d’arte. Pericolo, s’intende, soprattutto per lui. Niente da obiettare a chi accetta, a costo di essere meno pittore, o di non essere pittore, con piena consapevolezza, una simile moralità. Ma per Valenti, che di essa ha un gusto superficiale, e ha invece l’amore del- l’arte, il continuare per la strada intrapresa significava soltanto sacrificare le sue qualità pittoriche, senza trovare nemmeno il compenso della coerenza interiore. Il primo indizio dei nuovi modi di Valenti si ebbe l’anno passato, in una mostra di Genova.
Le sue pitture erano uscite da quello stato di estrema soggettività (che in lui prendeva spesso la molle e fiorita apparenza del sogno) segnavano già l’ammissione di una realtà oggettiva, si misuravano con essa. Il primo passo fu compiuto soprattutto arricchendo ed oggettivando il colore. Nella presentazione di quella mostra, scrissi già allora che alcuni quadri erano tappe raggiunte; e che pochi pittori giovani avrebbero saputo raggiungere risultati pittorici intensi come La statuetta bianca, I vasi gialli, La maschera blu, Calendole. Ma il passo compiuto oggi è più decisivo e chiaro. Di fronte ai migliori dei nuovi quadri (che sono, senza dubbio, alcune nature morte) si può ricordare certo il Picasso più consistente, si può ricordare Brague. Ma sorprende la decisione e, direi, la secchezza, con le quali Valenti (la cui indole sembrava, un tempo, morbida, torbida e insieme incantata) la rifiutato ogni ornamento sentimentale e letterario, ogni piacevolezza illustrativa e narrativa, per poter ricevere tutta la lezione di quei maestri. Perchè si tratta solo di una lezione: un accostamento di un giorno, per trovar modo di spogliarsi di alcune troppo scoperte sue inclinazioni, per passare, direi, da una pittura morale-psicologica a una pittura pittura. Ora Valenti, e in questo è il suo enorme pro-gresso, opera in una direzione interamente pit-torica. Il principale oggetto del suo studio è il quadro, la costruzione, l’equilibrio dei toni. Il suo stesso modo di colorire si è modificato. Da suggestivo e capriccioso com’era, il suo colore si distende ora in superfici larghe, simile a lacca, con chiaro intento architettonico, ricordando talvolta persino il De Chirico metafisico. Nemmeno ora v’è in lui la minima tendenza al verismo. La sua arte si svolge in una zona media tra il naturale e l’astratto, e quello che v’é di astratto sembra avere l’ufficio di obbligarlo a una netta costruzione pittorica e di costringerlo a ritmi evidenti. Ed umiliando nella semi-astrattezza la sua tendenza favolosa, Valenti ha dato ai suoi quadri un’altra poesia, una specie di religioso raccoglimento. I risultati migliori finora ottenuti sono, a mio parere, due o tre nature morte, e la figura seduta che è stata esposta alla mostra di Bergamo. Questa figura fa pensare che la prossima fase dell’arte di Valenti consisterà in un incontro senza riserve con le forme oggettive della figura umana. E si noterà come anche nella presente fase di stretta disciplina, il temperamento nativo di Va-lenti, il suo colorismo di veneto, rispunti ad ogni tratto portando dovunque un tono ricco ed acceso. Ma ora è un colorismo pittorico, non più edonistico o suggestivo soltanto, e senza grumi misteriosi lascia apparire la costruzione del quadro. Esso ci dimostra però che le riserve originali di Valenti sono intatte, e che riappariranno tutte col passare del tempo, legate da una vera disciplina pittorica. I suoi quadri d’oggi ci dicono intanto che egli è sicuramente pittore: tra i pochissimi giovani che si possono aggiungere senza incertezza al numero di quelli che possono, e vogliono, fare della pittura.
Piovene, Guido, Italo Valenti, Edizioni di Posizione, Novara, 1943, p.11-22