a cura di Luigi Cavadini
Valenti entra di diritto nell’area di Corrente: e tra questi pittori – che non sono né mistici, né ermetici, ma che, contro la freddezza e la castità del classicismo dei primi maestri del nuovo secolo, hanno ripetuto un antico richiamo e un’antica lezione, Valenti porta una sua urgenza nervosa ed inquieta, che s’appaga solo in forme lucide, suraturali, e il suo colore ha degli scatti abbaglianti”‘: così Luciano Anceschi accredita definitivamente la pittura di Italo Valenti (Milano 1912 – Ascona 1995) nella presentazione della sua mostra personale che nel maggio del 1941 si tiene alla Bottega di Corrente. Non senza aver prima considerato che “Tra i pittori di Corrente, Valenti era apparso sempre dei più acerbi: un interessantissimo pittore in formazione con un temperamento da “piccolo maestro”, ma gli mancava la voglia o il tempo, o la condizione favorevole per impegnarsi, per andare fino in fondo… Un vago impressionismo intelligente e colto (che ‘arrischiava talora in acute ricerche di chiaroscuro tonale) finiva col risolversi in modi gracili e troppo docili, in un linguaggio troppo debole e incerto, al servizio di una poeticità di svanimenti in una fantasia estrosa, un po’ ironica e nervosa”.
L’artista milanese aveva partecipato fin dall’inizio (1938) all’esperienza che radunava artisti, letterati e filosofi attorno alla rivista “Vita giovanile (poi “Corrente di vita giovanile” e, infine, semplicemente “Corrente” diretta dal giovanissimo Ernesto Treccani, condividendo la necessità di una espressione che non cedesse al classicismo. E aveva costruito un suo originale percorso, che per certi versi si allontanava dalla sottile linea del movimento di Corrente e non si accontentava di guardare al mondo reale, ma intrecciava realtà e sogno in immagini dalla “visionarietà stupefatta e onirica”, come ha lucidamente annotato Elena Pontiggia che pure rilevava che “la fragile linearità delle sue figure si irrobustisce a contatto con la strutturalità picassiana, ma identica rimane la magia degli oggetti, isolati nello spazio, silenziosi, immobili”. Ancora potremmo citare, per questo incipit della storia artistica di Valenti, quanto scrisse Mario De Micheli, uno dei più attenti studiosi di Corrente – “Davvero un singolare pittore era Valenti fra il gruppo degli artisti di Corrente. Meno esplicito nella manifestazione dei suoi senti-menti, ma tra i più decisi ad agire contro i trofei celebrativi della pittura ufficiale. Nel traslato visionario delle sue fantasie, il segno del suo rifiuto ad accettare la banalità di un’esistenza coercita e mortificata era vivo e immediato. La favola aveva, seppure invisibili, i suoi aculei”- e quanto annotò Marco Valsecchi, che mettendo in luce la sua “‘innocenza artistica” sottolinea che “ha raggiunto ormai una libertà di espressione – e una calda sensualità tattile del colore-, che salva dai vizi persino quelle tele più scopertamente d’ispirazione letteraria come la “Gaia Morte”- e dà respiro e garbo ad alcuni acquerelli nervosi ed allusivi “.
Molti degli elementi propri della pittura di Valenti si ritrovano fin da subito nei commenti che accompagnano le sue prime uscite. Sia Anceschi che Valsecchi mettono in bella evidenza la sua estrema libertà d’espressione, che è libertà di temi oltre che di modi. Libertà ed insofferenza insieme.
Che si manifesta in una pittura “nervosa (è un termine che usano entrambi i suoi primi illustri recensori) che si popola di segni e di sogni, che vive delle inquietudini che possono prendere le fattezze delle barchette di carta che solcano le onde o che più tardi si adageranno sulla poltrona della nonna, oppure degli amanti che (come in Chagall) fluttuano nell’aria o dei pazzi e delle maghe che popolano il suo immaginario e le sue tele.
Pittura come racconto, quindi? Per certi versi e in certi casi sì. Anche se è un racconto tutto suo, in cui i personaggi sembrano esulare dal mondo del reale, in cui tutto sembra sospeso, inquieto e nello stesso tempo inquietante. Nello stesso momento in cui ti senti confrontato con la favola, con qualcosa che per sua natura porta a un lieto fine, ecco il dubbio, l’interrogativo, il tarlo che si insinua in te e ti rode… (gli “aculei” di cui scrive De Micheli). Non c’è tema che sfugga a questa logica. Né la natura morta né il paesaggio, in sé e per sé meno tangibili dal sentire. L’inquietudine si insinua tra le cose e il distacco evidente da un formalismo di derivazione classica contribuisce a rilanciare il gioco, per non dire gli enigmi impliciti nelle sue visioni.
Valenti non si sofferma mai a descrivere. La sua pennellata è decisa ma apparentemente incerta, volutamente incerta. Per lasciare nell’indefinitezza la figura, l’oggetto, il particolare del paesaggio; costruendo così una scena da percepire, più che da vedere. Le vibrazioni interne alla composizione assumono quindi una valenza quanto mai significativa perché racchiudono (e sollecitano il fruitore a recuperare per proprio conto e con la propria sensibilità) le sensazioni più profonde dell’anima. Rilevante è in tutto questo anche l’uso del colore, che può anche essere declinato per toni bassi, ma più spesso vive di accensioni, che scuotono l’insieme rilevando magari alcuni particolari che costituiscono la chiave di lettura del tutto o, più semplicemente, cercando una vivacità di azione forse tarpata dal procedere dei fatti o dall’insignificanza delle cose. E anche quando l’immagine sembra frammentarsi per elementi geometrici, il colore ridimensiona tutto e riporta l’attenzione al mondo reale. Mondo reale da cui, pure, Valenti cerca l’evasione, rifugiandosi via via in scenari che richiamano dalla poetica dell’infanzia oggetti e personaggi favolistici che diventano protagonisti di una realtà sognata, voluta e sospesa nello stesso tempo. Abbiamo già accennato alla figura della maga, che compare nei primi anni Quaranta (è presente anche nei due dipinti aventi come tema la guerra), e di quella dei pazzi dalla presenza allucinata e “lontana” (forse simbolo di una società che non sa più dove andare). Altrettanto significativi sono le barchette di carta e i trenini che ritroviamo in dipinti che rasentano la metafisica, in momenti (siamo nei primi anni del dopoguerra) in cui tutto pare essersi fermato: vi si leggono ansie, timori, attese, ma anche quel senso di fragilità che deve aver segnato quegli anni. Man mano che gli anni passano, anche i trenini, le locomotive soprattutto, prendono un’altra consistenza simbolica e “cervo volante” e che, con la sua forma romboidale e dinamica, diventa protagonista di molte opere. Ma potremmo ricordare anche i carrettini che riempiono molte tele o le scene in cui si contrappongono l’uccello e l’istrice.
Il mondo dell’infanzia popola tutti questi anni fino alla metà degli anni Cinquanta con un fiorire sempre più intenso dei colori che alla fine diventano gli unici protagonisti del dipinto, nello sfaldamento sempre più evidente della forma che porta infine a composizioni di carattere dichiaratamente informale (anche nei titoli: “Caos”, “Materia”, “Rottura”). Il colore prende anche “corpo”, si fa materia e si distribuisce con grande libertà sulla tela, rispondendo a interessanti costruzione dinamiche, ora sottolineate dalle stesure di colore (ampie e rapide spatolate) ora da grandi segni che percorrono o si rincorrono dentro l’opera. L’acquisizione di un nuovo rapporto con il colore e la scoperta della espressività insita in questo modo di fare pittura, portano Valenti, dopo la “liberazione” iniziale incontrollata e incontrollabile, a riconsiderare se stesso e la sua espressione.
Con una disciplina non certo facile riesce a uscire dall’ubriacatura del colore che ha segnato questa prima fase informale e a confrontarsi con serietà con i colori e con le forme-non-forme che ha nel frattempo scoperto.
E trova anche nei grigi e nel rapporto di essi con i neri e i bianchi uno strumento interessante del comporre, che gli fa intuire le potenzialità di rapporti e composizioni tra pochi colori. In questo percorso gli si profila sulla tela, nuovamente, la forma. Forma informe in un primo momento, che matura dalla evoluzione del “caos” e lentamente si va a profilare come un quadrangolo dagli angoli smussati fino a definirsi nel rettangolo. Questa operazione dura due o tre anni, a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, ma, quando ne esce, Valenti è consapevole di aver superato i limiti che la sua storia di pittore gli aveva fino a quel momento inconsciamente imposto.
Questo periodo di ricerca è inoltre per l’artista particolarmente produttivo anche perché gli consente di scoprire una tecnica che lo accompagnerà poi per i successivi trentacinque anni. Nel tentativo di capire come e se la rinuncia alla forma avrebbe condizionato il suo lavoro, Valenti inizia infatti a fare delle simulazioni utilizzando fogli di carta che dipinge, frammenta a strappi, scompone e ricompone nuovamente su un altro foglio. Ottenendo immagini non ricostruibili ad olio sulla tela, immagini quindi che posseggono una autonomia e una capacità espressiva propria ed originale. Nascono così i collage, che non sono però semplici assemblaggi di carte colorate quanto, nella maggior parte dei casi, assemblaggi di carte dipinte.
Negli anni a seguire (fino al 1982 – poi resterà solo il collage) la ricerca artistica di Italo Valenti procede sui due binari (paralleli e concordanti) della pittura ad olio e del collage. L’esperienza del collage sollecita quella della pittura e, viceversa, quella pittorica suggerisce nuove strade da per-correre.
Nelle opere su tela il lavoro condotto dall’artista può dirsi minimale. Su un fondo monocromo vengono giustapposte forme quadrangolari in colore, spesso in scansione, seguendo un ritmo ben definito, spesso in evoluzione l’uno nei confronti dell’altro. Ne derivano opere di certa complessità, graduate in orizzontale e/o in verticale, e opere molto leggere, fatte della presenza di una semplice, minima successione di forme nel centro del quadro. Pur trattandosi di stesure di colore uniforme, la costruzione è tale da non dare mai l’impressione di un appiattimento dell’immagine, quanto da suggerire una distribuzione tridimensionale degli “oggetti”
L’approfondimento delle tematiche astratte (e in questo credo abbiano contribuito i numerosi artisti di varia cultura abitanti a Locarno e dintorni, come Ben Nicholson, con cui Valenti ebbe un ottimo rapporto di amicizia, Jean Arp, ma anche Hans Richter e Fritz Glarner, questi ultimi tre attivi, con lui, negli atelier organizzati da Remo Rossi alla periferia della città) appare continuo e introduce nel tempo variazioni significative. Anche nel collage l’apporto degli amici artisti è stato senza dubbio importante. Guardando i primi lavori con carte strappate di Valenti, la mente corre necessariamente ai papiers déchirés degli anni Trenta di Jean Arp, che, fra l’altro, in questi ultimi suoi anni di vita (muore nel 1966) realizza numerosi dècoupage sia con carte di colore uniforme che con carte disegnate o dipinte. Nei collage del nostro artista, fin dall’inizio, pittura e assemblaggio di carte convivono. La pittura può interessare il foglio di fondo o i frammenti di carta applicati e in alcuni casi entrambi i componenti del collage. Qui, ancor più che nei dipinti, i titoli delle opere diventano allusivi: a certe tematiche del passato (le maghe, i cervi volanti, i paesaggi), a immagini bibliche (La scala di Giacobbe) o mitologiche (Euridice, Orfeo, ecc. ), a luoghi visitati o di memoria, a sensazioni, a brani di poesia o di musica. Fra i temi nuovi che percorrono tutto il mondo del collage è senza dubbio la luna, declinata nei modi più vari dai primi lavori del genere del 1959 fino alla fine.
Ouesta tecnica – lo si percepisce nettamente se si confrontano collage con dipinti coevi – rende l’artista più libero. A fronte infatti di dipinti che mostrano una certa rigidità compositiva si assiste qui ad una estrema fluidità della composizione. Le possibilità di “impaginazione” del collage sono infatti infinitamente più ampie di quelle consentite dalla pittura, in cui, una volta definita la posizione di una forma, ad essa si devono poi rapportare sia quelle già esistenti che quelle che verranno. La mobilità reciproca dei frammenti di carta, prima della definitiva collocazione, consente un alto grado di libertà compositiva che l’autore riesce a gestire con grande vivacità.
I risultati ne sono la testimonianza più eloquente, sia quando la composizione risponde a criteri di astrazione di carattere concreto, in una logica quindi di soli rapporti formali tra entità geometriche, sia quando l’esito cercato e ottenuto è in pura funzione lirica. E comunque importante sottolineare che le due ipotesi appena accennate nella maggior parte dei casi si intrecciano e convivono nella stessa opera. A favorire il risvolto lirico dei collage contribuiscono allo stesso modo l’uso di carte di varia consistenza e superficie e la loro colorazione ora uniforme e piatta, ora resa vibrante dalle articolate tonalità di colore, ma anche, in molti casi, le frange informi dei frammenti di carta in cui resta ben visibile l’operazione di strappo che risulta certamente più espressiva del taglio netto ottenuto con forbici o taglierino
In una revisione complessiva dell’opera di Italo Valenti viene naturale considerare i toni bassi della sua produzione degli ultimi vent’anni (soprattutto i collage) rispetto alle accensioni coloristiche degli anni precedenti.
L’artista ha acquisito nel suo rapporto con le cose e con se stesso una serenità nuova fatta di sentimento e di contemplazione. Ciò lo rende permeabile alle grida e alle provocazioni, che passano oltre senza lasciare segno, mentre invece le suggestioni di una poesia, le elevazioni di una musica, le profondità di un pensiero filosofico, la freschezza di una notte di luna, la complicità di un paesaggio o di un’atmosfera, la semplicità di una parola sedimentano dentro l’animo e si trasformano in immagini di leggerezza e di quiete.
Cavadini, Luigi, Italo Valenti, le maghe e la luna, Città di Locarno – servizi culturali, Locarno, 2003, p.9-17