a cura di Neri Pozza
Dei giovani di punta, del gruppo di Corrente, Italo Valenti è stato, senza dubbio il più capriccioso nel senso dell’immaginazione. Il più letterato, dicevamo noi cinque anni or sono. E non s’ intendeva disconoscerli, con questo rilievo, che fosse più letterato di quanto non fosse pittore, che la sua natura prepotentemente veneta metteva fuori le unghie ad ogni urto con il mondo delle favole. Eppure la letteratura, poi che gli aveva stimolato l’estro, glielo infrenava con limitazioni insite nell’ andatura e nell’estensione poetica dell’ argomento, serrandolo programmaticamente; e la pittura finiva per diventare una maniera di vivere il mondo delle immagini, ricche si di carattere ma ancora lontane dallo stile cui ambiva la intelligenza, Questa soprastruttura letteraria durò quel che necessariamente doveva durare: con abbandoni è ritorni assai curiosi, dal 1938 al 1942. Infine Valenti doveva uscire da questo labirinto, Il sapore ironico, i modo grottesco o patetico, l’umore malinconico del racconto (Sposalizio in Piazza dei Signori, Primavera 1860, I Funerali di Isa, Amanti in volo), non potevano riuscir ad animare, più che non fosse naturale, l’ immaginazione sensibile del colorista che la forma sfatta, il colore fluido, la rinuncia spezzante ai mezzi più elementari dell’espressione grafica, dovevano apparire, nella prospettiva larga del suo vero lavoro, un episodio straordinario, nel quale il poeta aveva compromesso il pittore. Ma perché fosse riuscito, nel gruppo di Corrente, a toccare in modo sensibile anche le coscienze più sveglie e più rinunciatarie in fatto di contenuti, insomma le più morali dei suoi compagni, bisognava che ci fosse una ragione. E, la ragione stava nel fatto che al di sopra del letterato c’ era spesso il pittore, col suo gusto acceso ai risultati espressivi del colore. Naturalmente: la formazione artistica di Valenti era stata, sin dagli inizi, d’ una durezza di disciplina voluta con franchezza e amore, e sostenuta da un istinto scaltrissimo. Stabiliamo qui, come sua prima prova veramente impegnativa, I due amici (1937), dipinto che noi stessi conserviamo come sicura testimonianza della sua fede. Vedremo come si svilupperà, con ferma coerenza d’istinto, il processo evolutivo dell’arte di questo compagno, sino alla definitiva rottura col suo mondo che chiameremo ancora letterario. Fu precisamente il bisogno di costruire nella pittura un mondo morale che lo portò a staccarsi dal cosiddetto racconto; l’ aspirazione a immaginare e a rappresentare con mezzi più legittimi all’arte, e che fossero non già situazioni o scene, ma piani di colore nello spazio ridotti all’argomento di un paese, di una natura morta o di un ritratto; seguendo l’esempio di un Cezanne, o meglio, perché più vicino al suo temperamento, di un Picasso o di un Braque: simpatie già notate da Guido Piovene in una sua recente monografia (*), e alle quali noi vorremmo aggiungere il nome di qualche espressionista (da Otto Friez a Oscar Kokoska) se una elencazione di esempi risultasse utile più all’artista che non all’ intelligenza dei lettori. Del resto tutto il gruppo di Corrente stabili dei cardini di cultura figurativa che parvero eccentrici: Van Gogh, Picasso, Matisse. Eccentrici perché quei pittori avevano aderito ad un movimento rinnovatore senza condizionarlo a mezze misure ideali. Infine anche Cezanne doveva dire la sua parola e Valenti fu dei primissimi a capire che quello restava il maestro imbattibile. Un’ analisi veramente proficua, agli effetti della storia, sarà nel vedere il diverso agire di maestri in questo senso: per esempio Cezanne sui novecentisti e, quasi trent’anni dopo, sul gruppo di Corrente. Dicevamo che per Valenti il problema era diventato quello di costruire il quadro. L’argomento, ridotto all’importanza di un vivo stimolo, ormai era un mezzo per conquistare la rappresentazione; la quale, finalmente, stava dentro di lui. Dentro di lui non la fiaba, ma piani di colore composti secondo andamenti e ritmi pieghevoli all’immaginazione e al sentimento: tutto un lavoro astratto dalle cose apparenti e perciò intimo, un processo di trasfigurazione compreso dei diritti poetici più schietti cui potesse ambire. Resta a vedere se la pittura degli anni andanti fra il 1938 e il 1942 fosse stata uno svago ozioso. Noi non lo diremmo, neppure in sede di serietà morale. Fu un riferimento necessario allo svolgersi della personalità.
Quella sua posizione di poeta incantato e astratto dalle cose reali era stato un modo umano di difendersi dalle prepotenze della vita. Ingenua difesa, nelle pieghe della quale l’artista era riuscito a trovare la distensione necessaria al proprio lavoro. Ma, fuori dalla psicologia, diremmo che la volubilità del pittore, gli aspetti anche più negativi del suo mutare e trascolorare, perfino nei modi più indiscreti e appassionati della sua passione, furono scatti in buona fede della fantasia; e quando si disfece della passione, per trovare un piano più stabile alla sua coscienza d’artista, di colpo si trovò dotato di quell’amore che doveva condurlo diritto alla vera pittura.
Questo amore dà oggi i suoi frutti e noi siamo soddisfatti d’ avergli creduto anche quando – specie in provincia – qualcuno che voleva saperla lunga in fatto di critica (lo notiamo senza intenzioni polemiche) ne preannunciava le crisi, le stasi o addirittura il fallimento dell’obiettivo più naturale; come se crisi e stasi e falli-mentisson fossero in diritto della giovinezza e più di esse non importasse veramente la schiettezza dell’ingegno e la capacità di impegnarsi a fondo in problemi lontani dal buon senso e fuori dalla soggezione del nobile passato.
Noi adoriamo il passato quando ci dà pittura o scultura, ma vogliamo andare per la nostra via, quella della nostra storia. E la storia è in questi quadri inquieti, cocenti, in questi rapporti tesi, in questa contrapposizione di piani plastici torbidi e lucidi, pieni di accenti, di meraviglie e di cupo dolore. La storia è in queste larghe zone di colore scoperto, eccessivo, in questo disegno schematico tanto da parer sommario: insomma nella franca rappresentazione di questo mondo investito della dignità di canto. Il colore, come mezzo espressivo, trova modo, nelle opere raccolte in questa rassegna, di aderire con rara immediatezza e varietà agli stati d’animo dell’artista. Si osservino le opere, da quelle di più modeste proporzioni – tale la figurina in giallo -, al vasto paesaggio con: la fabbrica; oppure qualche composizione. Indichiamo quelle segnate dai numeri 5 e 9. Vi è sempre lo stesso impegno, cocente, univoco; l’ usato dolore contemplante e astratto, anche quando, nella Composizione segnata 5, par liberare il canto in un mondo più vicino alla gioia e abbandonarvisi fiducioso. In tutti i casi sono suoi i rossi accesi e i turchini, i gialli acidi e i neri, i bianchi e i grigi di pietra. E questo è l’ essenziale. Qui, dunque, la morale dell’artista. Abbiamo parlato di dolore senza voler toccare più profondamente la sua posizione umana di fronte alle cose. Sicuramente: l’ osservatore non superficiale vedrà com’è esclusa da questo lavoro di ricerca e di amara conquista ogni seduzione nel senso del godimento esterno: nulla per piacère o divertire (e sarebbe ormai troppo facile, con tutti i pittori che hanno divertito e continuano a far divertire senza pittura il genere umano), ma rappresentazioni di un mondo che cresce e respira un’ aria di dramma teso, tragico e mutevole e che cerca ansioso la via della purificazione e della serenità. Un ultimo rilievo. La presenza di quest’ arte in provincia non è di tutti i giorni. In provincia viene offerto altro pane e si posseggono altri denti. Non sarà dunque pessimistico notare ancora una volta il disamore o l’indifferenza – non ancora abbiamo detto disprezzo – per i problemi più urgenti del mondo figurativo contemporaneo. Stavolta però (e nessuno se ne offenda) si tratta, per chi osserva, di arrivare, sia pure per una strada difficile, alla pittura. I
che non è poco.
Queste note e questa mostra sono, in ogni caso, il compimento e l’ esemplificazione d’ un nostro discorso del 1943 (*), al quale ci permettiamo di rimandare gli ignari e i dimentichi, ma soprattutto gli appassionati ai nostri problemi.
Pozza, Neri, in Mostra personale del pittore Italo Valenti e dello scultore Neri Pozza, Il pellicano, Vicenza, 1944