Non oserei dire che l’arte abbia sempre avuto per imperativo la polemica. Certamente essa dovette in tutti i tempi lottare per affermarsi come assoluta realtà moderna. Tuttavia assai spesso spiace rivolgersi al pubblico come questuanti che chiedono la grazia di essere presi sul serio oppure come imbonitori che quel pubblico sferzano un po a sua derisione ed un po per fargli imboccare la via giusta. Insomma anche la polemica quotidiana annoia, benchè di essa si riconosca l’utilità per una vita attiva della cultura. Non direi altro, quindi, a proposito di questi artisti, se non che essi vanno considerati come un gruppo di valori tra i più significativi della moderna scuola plastica e pittorica italiana. Vorrei che le loro cose fossero guardate, come in e tanti al pari di me le guardiamo, non più, secondo il costume ormai passato, per uno scherzo buono soltanto per deridere con vacua reazione alla così detta arte borghese, bensì come una realtà che vive ed opera nel clima meglio giustificato della cultura moderna. L’arte non è mai stata priva di intenzioni scoperte in senso rinnovatore e polemico, e neppure questa di tali giovani potrebbe esserlo. Essa nasce perciò, oltre che da un’origine intima, la quale appunto ne sancisce la prima validità, da una coscienza dell’arte, da un desiderio di inedito, ed in ciò si appare storicamente adatta. L’epoca in cui essere impressionisti costituiva legge è definitivamente tramontata: altre esperienze, altre necessità vi si sono sovrapposte. Birolli sa che guardare ancora a Cezanne non è possibile se non nel senso di tentar di risolvere i quesiti che quello presumibilmente avrebbe uffrontati per superarsi. L’accostamento, più volte tentato tra Rosso e Manzù si basa, come fu da più parti dimostrato, su coincidenze esterne, le quali per nulla intaccano l’angelica realtà delle sue figure, che in questa mostra si svelano a noi attraverso l’acquaforte, genere finora in lui poco noto. Ugualmente non potremo rimproverare a Sassu, per il fatto che si dedica a composizioni con molte figure, di riproporre uno „storicismo” alla Ussi e compagni: i suoi interessi sono di tutt’altra natura. E ancora: Broggini, nella sua plastica rapida e nervosa, schiva un concetto impressionistico, anche se vi ferma qualche accento pittorico. E Tomea, nella gravità della sua pittura, nel modo con cui ispessisce la materia, si rifà ad una sua autorità. Non altrimenti Badodi, Migneco, Valenti, nel trasporre una fantasia fremente entro la magia accesa del colore, si creano una indipendenza lontana da quei centri passati, dai quali pur provengono. Sui gradi che impegnano la pratica quotidiana verso l’eroismo ed il mito d’una purezza pittorica o plastica va fondata la nostra persuasione di uomini moderni, quand’ anche, più che un raggiunto limite, stesse ad avallarla solamente l’incanto di benevole ipotesi. Ma tale ingiuria non dovrebbe attendersi da chi compie la sua sostanza con intensità di coscienza e di abbandono. È bene dunque che la Galleria d’arte al Corso inizi la sua stagione con una mostra così fatta. Trieste, piuttosto poco incline finora ad accogliere le esperienze di quella civiltà artistica per cui da ogni parte ostinatamente si opera, non lascierà cadere questa occasione che le si offre per rivedere ed aggiornare il suo orientamento.
UMBRO APOLLONIO
